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Rapporti economici

Rapporti economici

La Costituzione sancisce la prevalenza della politica sull’economia, che resta comunque essenziale per assicurare il progresso materiale degli individui e della società nel suo complesso

Rapporti economici

Rapporti economici

Presentazione

Un intero Titolo della Costituzione italiana (il terzo della Parte I) è dedicato ai rapporti economici. Queste disposizioni, insieme ad alcuni principi espressi nei primissimi articoli della Carta (si pensi, in particolare, agli artt. 1, art. 2, art. 3 e 4 ed ai principi lavorista, solidarista e di uguaglianza sostanziale) contribuiscono a definire – da un lato – i rapporti fra economia e società e – dall’altro – le più importanti forme di rapporti di lavoro. Elemento comune ai due percorsi ideali, che si snodano fra gli articoli dedicati alla c.d. “Costituzione economica”, è la ricerca di un (non sempre facile) bilanciamento fra interessi collettivi e diritti dei singoli, fra pubblico e privato, fra libertà e (ragionevoli) limitazioni delle stesse.

Economia e società

I rapporti tra politica ed economia possono assumere molte forme. L’ordinamento costituzionale italiano è costruito intorno all’idea che la politica debba decidere che tipo di società vuole e che l’economia sia uno strumento attraverso cui realizzare quel modello sociale. La Costituzione sancisce dunque la prevalenza della politica sull’economia, che resta comunque essenziale per assicurare il progresso materiale degli individui e della società nel suo complesso.
Questi criteri sono alla base di alcuni diritti e (specularmente) di alcune limitazioni che si rintracciano nel testo costituzionale.
Sono per esempio fissati, nell’interesse dell’intera comunità, alcuni limiti al “libero gioco” del mercato: una certa concezione dell’iniziativa economica privata (che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale), dei rapporti di lavoro (nei quali la tutela più robusta è prevista a vantaggio della parte più debole e cioè del lavoratore dipendente) o del fisco (mediante la previsione di un sistema di tassazione, ed indirettamente di redistribuzione della ricchezza, di tipo progressivo).

Costituzione

Approfondimenti

1. – Gli articoli che formano la c.d. “Costituzione economica” sono formulati con l’intento principale di coniugare gli interessi della collettività e le libertà economiche dei singoli. Si tratta di disposizioni che tendono indirettamente a definire i confini fra pubblico e privato.
Le attività economiche (volte a produrre beni e servizi) e quelle finanziarie (necessarie all’acquisizione, al mantenimento ed all’investimento dei capitali) sono tutelate e disciplinate dalla Costituzione con l’obiettivo di rendere possibile il realizzarsi di un modello equo di circolazione e distribuzione delle ricchezze, anche al fine di garantire l’emancipazione ed il “riscatto” degli individui più svantaggiati.
L’impianto costituzionale in tema di rapporti economici è allora attraversato da una costante tensione fra la garanzia delle libertà, da un lato, ed il principio di uguaglianza sostanziale, dall’altro. Quest’ultimo può essere sintetizzato nella necessità di rimuovere gli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, co. 2, Cost.); ma non si possono rimuovere gli ostacoli ai quali l’art. 3 si riferisce se l’intera dinamica economica è lasciata alla sola capacità del mercato di autoregolarsi. Attraverso questa chiave di lettura (libertà vs uguaglianza sostanziale) si può allora meglio comprendere ciò che la Costituzione dispone in materia economica.

2. – Il modo in cui sono strutturati e fraseggiati alcuni degli articoli che costituiscono questo Percorso svela il tentativo dei costituenti italiani di coniugare le diverse correnti di pensiero che essi stessi rappresentavano in seno all’Assemblea Costituente, correnti riconducibili alle matrici liberale, democratica, cristiano-sociale e socialista.
Emblematico in tal senso è l’art. 41 Cost.: dopo aver affermato che «l’iniziativa economica privata è libera» (primo comma, in sintonia con il pensiero liberale), dispone che questa non possa svolgersi «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (secondo comma, ispirato anche – ma non esclusivamente – dalle dottrine cristiano-sociali).
Una libertà limitata, dunque, nell’interesse tanto dei singoli quanto della società. L’art. 41 affida poi alla legge – e quindi, in prima battuta, al Parlamento –  il compito di determinare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» (terzo comma, in assonanza con il modello di matrice socialista e con una visione “interventista” dello Stato nelle dinamiche economiche).

In più circostanze l’articolo in questione ha contribuito a “far parlare” la Costituzione sui temi economici ed è stato alla base di decisioni con le quali la Corte Costituzionale (che lo ha utilizzato come “parametro” nelle proprie valutazioni) ha annullato alcune disposizioni che garantivano l’iniziativa economica privata, ma trascuravano l’utilità sociale o mettevano in pericolo la sicurezza, la libertà, la dignità umana.

D’altra parte si deve constatare come, nella pratica, i limiti immaginati dai costituenti e gli argini che avrebbero dovuto garantire la compatibilità dell’iniziativa economica privata con la dignità umana e con gli altri valori richiamati dall’art. 41 si siano talvolta assottigliati a tal punto da far pensare ad uno “svuotamento di fatto” dell’articolo in questione. In non pochi casi, infatti, l’utilità sociale è stata sacrificata a vantaggio della libertà di iniziativa economica privata. Si pensi, per esempio, alle molte forme di peggioramento delle condizioni di lavoro, attraverso le quali la libertà imprenditoriale ed il modello della libera concorrenza sono stati anteposti ai diritti dei lavoratori.

Il senso complessivo dell’articolo va rintracciato allora nella convinzione che il mercato, se lasciato totalmente libero da vincoli e limitazioni, possa in qualche misura “fallire”, non assicurando quei beni e quei principi che, per la Costituzione, sono e devono restare oggetto di tutela (per riprendere le parole del testo costituzionale: l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana).

3. – Una logica per certi versi analoga può essere rintracciata nelle disposizioni costituzionali successive. L’articolo immediatamente seguente è dedicato al rapporto fra le persone ed i beni e, più in particolare, alla proprietà.

La proprietà – recita la Costituzione – «è pubblica o privata» (art. 42 Cost, co.1). La “proprietà pubblica” è sottoposta al controllo ed alla gestione dello Stato o di uffici e strutture che fanno capo allo Stato, alle Regioni o ai Comuni.

Anche la proprietà privata (art. 42 Cost., co. 2), riconosciuta e garantita dalla legge, incontra dei limiti – che possono riguardare l’acquisto, il godimento e la trasmissione della stessa proprietà – laddove la legge ne voglia assicurare la “funzione sociale”. Determinare, in concreto, in che cosa consista la “funzione sociale” non è sempre stato agevole.

Si può però ipotizzare che lo Stato abbia interesse, attraverso le sue limitazioni, a garantire alla collettività la fruizione di (o l’accesso a) beni di carattere artistico o architettonico o voglia tutelare il paesaggio o l’ambiente o, ancora, intenda sviluppare reti di comunicazione o infrastrutture. Questi obiettivi possono allora legittimare le istituzioni pubbliche a comprimere (in modo più o meno invasivo) il diritto alla proprietà del singolo, al quale è richiesto di sacrificare il proprio diritto (o anche solo una “porzione” del proprio diritto) per il bene della collettività.

È’ peraltro esplicitamente previsto dalla Costituzione (art. 42, co. 3) che la proprietà privata possa essere espropriata per motivi di interesse generale. Con l’espropriazione (o esproprio), la pubblica amministrazione può acquisire la proprietà di un bene anche contro la volontà del proprietario. La pubblica amministrazione può adottare questa “drastica” soluzione quando l’obiettivo da raggiungere sia di pubblica utilità (per esempio la costruzione di un’opera destinata alla collettività) e non possa essere raggiunto altrimenti (o possa essere altrimenti raggiunto ma con costi molto più elevati). L’amministrazione pubblica è inoltre – lo prevede la Costituzione – tenuta ad indennizzare il proprietario mediante una somma di denaro.

Anche le strutture produttive possono essere oggetto dell’intervento dello Stato. Per preservare l’utilità generale, in particolari circostanze, le imprese possono essere “socializzate” o “nazionalizzate” (statalizzate). Si tratta dei casi in cui, rispettivamente, la loro gestione sia affidata a comunità di lavoratori oppure allo stato (art. 43 Cost.). Tale previsione può indurre – ed in passato ha indotto – il legislatore nazionale (cioè il Parlamento) a riservare o trasferire allo Stato la gestione di imprese attive in settori strategici per la collettività e, più precisamente, nella erogazione di servizi pubblici c.d. “essenziali” (si pensi, per esempio, al trasporto ferroviario o alla distribuzione dell’energia elettrica). Anche in tal caso deve essere preminente l’interesse generale; qualora l’amministrazione pubblica decida di espropriare, essa è tenuta a corrispondere un indennizzo (art. 43 Cost.).

Un articolo della Costituzione è specificamente rivolto allo sfruttamento della terra (art. 44 Cost.). Questa disposizione va contestualizzata negli anni del secondo dopoguerra, quando la questione agraria, la necessità di limitare l’estensione delle terre incolte o non adeguatamente coltivate e quella di favorire la piccola proprietà contadina (e, specularmente, di limitare il latifondo) erano esigenze molto avvertite in ampie zone del Paese. Il testo costituzionale prevede così che possano essere fissati, con legge, obblighi e vincoli per la proprietà terriera privata (art. 44 Cost., co. 1), le cui eventuali limitazioni devono perseguire l’obiettivo di sfruttare razionalmente il suolo e di stabilire equi rapporti sociali. Possono essere determinati limiti all’estensione della proprietà privata della terra ed è esplicitamente previsto che la bonifica delle terre sia, attraverso la legge, promossa ed imposta.

Uno specifico riferimento è rivolto alle zone montane, tradizionalmente “inospitali”; per questo, con legge, possono essere previste delle misure che ne incentivino o facilitino il mantenimento e la cura (art. 44 Cost., co. 2).

4. – Le società cooperative, che sono particolari forme di impresa gestite dai soci per soddisfare i propri bisogni economici o sociali, sono anch’esse oggetto di specifica tutela costituzionale: l’art. 45

Lo stesso articolo dispone che la legge provveda alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato (art. 45 Cost, co. 2); questa previsione costituzionale rivela la volontà dei costituenti di preservare e rafforzare un fitto tessuto produttivo – quello degli artigiani –  tanto esteso quanto tendenzialmente più fragile rispetto alle imprese di grandi e medie dimensioni.

La possibilità per i lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende è prevista dall’art. 46 Cost., che individua l’obiettivo delle possibili collaborazioni fra lavoro e capitale nella «elevazione economica e sociale del lavoro», fermo restando che tali forme di cooperazione debbano svolgersi «in armonia con le esigenze della produzione».

In realtà, le concrete esperienze di partecipazione sono state davvero modeste e l’art. 46 Cost. non ha mai trovato piena applicazione. In alcuni, limitati, casi si è piuttosto garantito ai lavoratori un più tenue diritto ad essere informati e consultati dalle direzioni aziendali.

5. –  Disposizione costituzionale di riferimento per la disciplina delle attività finanziarie (orientate – come si è visto – all’acquisizione, al mantenimento ed all’investimento dei capitali) è l’art. 47.

Il risparmio, in tutte le sue forme, è oggetto di specifica tutela, così come, specularmente, è disciplinato, controllato e coordinato l’esercizio del credito (art. 47 Cost.).

Si tratta delle due più importanti attività gestite dalle banche, i cui compiti principali sono appunto la raccolta dei risparmi e la concessione dei crediti. Ma si tratta di attività che possono incidere in modo molto significativo anche sui singoli e sulle famiglie (che, in base alle circostanze, possono trovarsi nella condizione di risparmiare, e quindi di affidare il proprio denaro al sistema bancario, oppure di “chiedere in prestito” denaro allo stesso sistema). Anche le imprese possono essere al centro di complessi rapporti con le banche (per investire gli utili ottenuti e/o, specularmente, per chiedere finanziamenti che consentano nuovi investimenti), così come lo stesso Stato che, in questa dinamica, spesso si trova a dover finanziare – mediante la emissione di “titoli” – il proprio debito “storico” o le proprie spese correnti.

Si può allora comprendere il “perché” della previsione costituzionale con riferimento alla necessità che tali delicatissime attività vengano controllate e coordinate (ed in effetti, nel nostro ordinamento, sono istituiti alcuni organi cui sono affidate le funzioni di controllo del sistema bancario e, più in generale, dell’attività finanziaria). Con questa disposizione i costituenti hanno voluto implicitamente riconoscere il valore della moneta ed i rischi che una sua circolazione fuori controllo può avere nei contesti più ristretti (creditori o debitori individuali) ed in quelli più strutturati e compositi (imprese, istituzioni pubbliche).

Specifico riferimento è fatto al “risparmio popolare” (art. 47 Cost., co. 2), generato dalle forze sociali più deboli (i c.d. “piccoli risparmiatori”) e caratterizzato da alcune peculiarità (si sviluppa, in linea di massima, sull’accantonamento di piccoli importi e per periodi lunghi).

Sebbene la Costituzione non ne offra una definizione, si può ipotizzare che l’oggetto della tutela sia innanzitutto il risparmio del lavoratore dipendente o dell’artigiano; forme specifiche di risparmio popolare (per esempio il c.d. “azionariato popolare” che, per la verità, non si è mai particolarmente sviluppato nel nostro Paese) dovrebbero essere volte – lo prevede la Costituzione – a favorire l’accesso «alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese» (art. 47 Cost., co. 2).

6. – Fondamentale meccanismo di redistribuzione delle ricchezze ed elemento indispensabile per mettere in moto quei processi di riequilibrio insiti nel modello dell’uguaglianza sostanziale (cui si è fatto cenno in principio) è il prelievo fiscale.

Solo un ammontare adeguato di risorse, infatti, può consentire allo Stato di erogare servizi ed istituire strutture (si pensi alle scuole, agli ospedali, e così via) garantendo alla collettività diritti e prestazioni.

Ma in quale misura ed in base a quali principi il singolo deve partecipare alle spese che lo Stato, le Regioni ed i Comuni affrontano per assicurare tali prestazioni alla comunità?

Così dispone l’art. 53 Cost., co. 1: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva»: il dovere inderogabile di solidarietà economica (richiamato direttamente dall’art. 2 Cost.) deve perciò essere calibrato sulle effettive possibilità del singolo di concorrere alle esigenze (ed alle spese) della collettività. In altri termini, nel determinare modi ed entità del prelievo fiscale, i poteri pubblici non possono agire indistintamente; devono graduare il proprio intervento in base alla condizione economica dei soggetti che a quel prelievo sono sottoposti.

La Costituzione non si limita a prevedere un sistema basato sulla stretta proporzionalità fra reddito e tassazione, facendo invece esplicito riferimento al criterio della progressività: al crescere del reddito deve crescere, in termini percentuali, il prelievo fiscale. In altri termini, la percentuale di reddito “prelevata” dallo Stato (c.d. aliquota) aumenta all’aumentare del reddito stesso, richiedendo ai contribuenti “più ricchi” sacrifici più sostanziosi rispetto a quelli richiesti ai meno abbienti. Va d’altra parte registrato come questa disposizione costituzionale sia sempre stata letta ed interpretata in termini parziali, sicché non si è mai registrata, in Italia, la piena adozione di un sistema effettivamente e completamente progressivo di imposizione fiscale; oltre certe soglie di reddito – per esempio – l’aliquota, è fissata al 43 per cento del reddito e non cresce più.

Incide sulla materia fiscale anche l’art. 23 Cost.: esso dispone, nell’ottica di garantire la corrispondenza fra ciò che “si chiede” ai componenti la società ed il principio democratico-rappresentativo, che nessuna prestazione personale o patrimoniale (in questa ultima categoria possiamo far rientrare i tributi ai quali fa riferimento l’art. 53 Cost.) possa essere imposta da atti diversi dalla legge.

7. – Imprescindibile momento della vita di ogni Stato è quello relativo alla periodica formazione ed armonizzazione del bilancio, strumento attraverso il quale si assicura la “tenuta” ed il funzionamento dell’intera amministrazione pubblica e la possibilità di erogare le prestazioni cui si è fatto cenno.

Affinché i conti dello Stato non siano squilibrati ed al fine di garantire che non si spenda più di quanto si riesce ad incassare, la Costituzione dispone – in una formulazione che è diventata molto più rigida a seguito di una recente riforma costituzionale – che le entrate e le spese debbano essere in equilibrio (art. 81 Cost., come modificato dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1). Soltanto in particolari e drammatiche circostanze (pesanti e prolungate crisi economiche) il Parlamento può autorizzare lo Stato ad “indebitarsi”, cioè a farsi finanziare – a richiedere in prestito denaro a soggetti ai privati – facendo momentaneamente “saltare” l’equilibrio prescritto dalla Costituzione (art. 81 Cost, co. 2).

Ulteriori garanzie circondano questa delicatissima materia. Lo stesso art. 81 Cost, co. 3, prescrive, per esempio, che ogni legge che prevede nuove o maggiori spese debba riportare indicazioni in ordine alla “copertura finanziaria” necessaria alla propria applicazione; devono in altri termini essere indicate le entrate mediante le quali lo Stato vi farà fronte.

Va registrato come in Italia ed in molti degli Stati che fanno parte dell’Unione Europea l’irrigidimento dei vincoli di bilancio al quale si è fatto cenno abbia in tempi recenti compresso significativamente i margini di azione di governi e parlamenti, imponendo di fatto la razionalizzazione (cioè la diminuzione) di servizi e prestazioni ed indirettamente penalizzando le classi sociali più deboli.

Il principio dell’equilibrio di bilancio vincola anche Comuni, Città metropolitane e Regioni, che godono di autonomia finanziaria (sia sul fronte delle entrate che su quello delle spese) ma non possono sottrarsi al principio stesso (art. 119 Cost., co. 1). Anche a livello decentrato l’irrigidimento del principio ha determinato, negli ultimi anni, non poche difficoltà nell’erogazione di servizi e prestazioni essenziali, come quelle sanitarie o assistenziali.

8. – Va infine osservato come le possibilità di “governare” efficacemente l’economia e la finanza, appaiano – oggi – sempre più ridotte. Con la globalizzazione dei mercati, i grandi gruppi economici hanno adottato modelli organizzativi e strutture di carattere multinazionale, aspetto che rende molto complicato, per gli organi dello Stato, poterne regolare e controllare le attività.

Analoghi deficit si registrano sul fronte del risparmio e dell’investimento: la diffusione ed il trasferimento di “prodotti finanziari” sempre più sofisticati ed in molti casi scollegati da qualsiasi attività di produzione reale di beni o servizi, sono alla base dell’incapacità degli organi statali di controllare (o anche soltanto di prevedere) la movimentazione di immensi flussi di denaro.

Rischia quindi di ribaltarsi completamente il modello, fatto proprio da molte costituzioni “figlie” del secondo dopoguerra, che vedeva nella finanza un mero strumento dell’attività economico-produttiva, ed in questa ultima un mezzo per realizzare una società più libera e più giusta.

Scheda Giuridica

Bibliografia tematica

Giovanni Bognetti, La Costituzione economica italiana, Milano, Giuffrè, 1995

La definizione del concetto di “costituzione economica” effettuata dall’autore è il momento di avvio del dibattito, ancora in corso, relativo alla determinazione dei principi che reggono i processi economici nel testo costituzionale italiano.

Alessandra Algostino, Democrazia sociale e libero mercato: Costituzione italiana versus “costituzione europea”?, in Costituzionalismo.it, n. 1/2007

Il confronto tra gli obiettivi e i principi della Costituzione italiana, volta alla costruzione di una democrazia sociale, e quelli dei trattati fondativi dell’Unione Europea offre una chiave di lettura critica circa l’evoluzione dell’Europa in senso meramente economico.

Ilenia Massa Pinto, L’innocenza della Costituzione e la sua difesa minima: in margine al dibattito sulla proposta di modifica dell’art. 41 della Costituzione, in Costituzionalismo.it, n. 2/2010

La proposta del governo di modificare l’art. 41 della Costituzione in materia di libertà d’iniziativa economica privata ha fornito al dibattito in corso una nuova occasione per porre a confronto argomenti pro e contra la possibilità e/o la necessità di modificare la Costituzione del 1947.

Gaetano Bucci, Le fratture inferte dal potere monetario e di bilancio europeo agli ordinamenti democratico-sociali, in Costituzionalismo.it, n. 3/2012

Una riflessione critica sui problemi provocati dalla scelta di abbandonare il modello di Europa democratica e sociale prefigurato nel secondo dopoguerra e di aderire a quello liberista delineato dal Trattato di Maastricht.

Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. Attacco alla democrazia in Europa, Torino, Einaudi, 2013

La falsa narrazione intorno alle cause della crisi economica mondiale e le sue reali origini: analisi delle storture del sistema finanziario, della politica che ad esso ha attribuito un potere smisurato e delle conseguenze sulle vite e i diritti dei cittadini.

Carmela Salazar, Crisi economica e diritti fondamentali, relazione al XXVIII convegno annuale dell’AIC, in Rivista AIC, n. 4/2013

L’evoluzione dei diritti fondamentali “oltre lo Stato” e la potenziale minaccia derivante dal consolidarsi del processo di globalizzazione economico-finanziaria alla luce della crisi economica globale.

Massimo Luciani, L’equilibrio di bilancio e i principi fondamentali: la prospettiva del controllo di costituzionalità, relazione al convegno“Il principio dell’equilibrio di bilancio secondo la riforma costituzionale del 2012”, Corte costituzionale, Roma, 22 novembre 2013

Definizione e analisi del principio del pareggio di bilancio nel contesto che ha condotto alla sua adozione ed esistenza di margini per un sindacato di costituzionalità da parte della Corte.

Elisa Olivito, Crisi economico-finanziaria ed equilibri costituzionali. Qualche spunto a partire dalla lettera della BCE al governo italiano, in Rivista AIC, n. 1/2014

Partendo dalla lettera della Banca centrale europea al governo italiano del 5 agosto 2011 vengono svolte alcune considerazioni sul modo in cui la crisi economico-finanziaria ha inciso sulla produzione normativa, sui rapporti tra gli organi costituzionali e sugli equilibri costituzionali.

Franco Gallo, Federalismo fiscale e vincolo del pareggio di bilancio, “Lectio brevis” all’Accademia dei Lincei, Roma, 9 gennaio 2015

Analisi della coerenza del principio del pareggio di bilancio e del restringimento dell’autonomia finanziaria regionale e locale che ne consegue rispetto ai principi costituzionali di autonomia e di sussidiarietà.

Lorenza Carlassare, Diritti di prestazione e vincoli di bilancio, in Costituzionalismo.it, n. 3/2015 

Il limite posto dall’art. 81 della Cost. e l’interesse da esso tutelato non devono essere assolutizzati e isolati, ma devono essere messi a confronto con l’intera Costituzione, nel suo disegno complessivo e nei suoi fondamenti, primo fra tutti il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2 Cost.

Legislazione

Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo) convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148

Contesto: rischio di svuotamento del contenuto dell’articolo 41 della Costituzione. Il comma 2 dell’art. 3 del decreto si riferisce al principio secondo cui “[…] l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”.

Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale) e legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione)

Contesto: introduzione del principio dell’equilibrio tra entrate e spese di bilancio e del vincolo di sostenibilità del debito di tutte le pubbliche amministrazioni mediante modifica degli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione. Problematicità: assetto di valori e priorità non coerenti rispetto all’ordinamento costituzionale italiano, che assegna invece priorità alla persona e alla sua dignità. Le ragioni dell’economia vanno garantite, ma attraverso operazioni di bilanciamento che escludono vincoli rigidi predefiniti.

Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività) convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012, n. 27

Contesto: rischio di svuotamento del contenuto dell’articolo 41 della Costituzione e di inversione della sua logica. Non più centralità dell’obiettivo dell’ “utilità sociale”, ma innalzamento del principio generale (ormai divenuto tale) della liberalizzazione a vero e proprio fine costituzionale.

Giurisprudenza

Sentenza n. 354/2008 della Corte costituzionale

Contesto: il richiamo a questa sentenza pare utile nell’ottica di comprendere l’indirizzo prevalente della Corte in materia di diritto alla salute come “diritto finanziariamente condizionato”. L’esempio del diritto alla salute può essere interessante al fine di verificare quanto le “ragioni dell’economia” influenzino l’effettivo godimento dei diritti fondamentali. A tale proposito la sentenza in questione riporta l’orientamento consolidato della Corte costituzionale nel Considerato in diritto n. 4: “È necessario richiamare gli orientamenti più volte enunciati da questa Corte, anche con la sentenza n. 309 del 1999, secondo i quali, da un lato, la tutela del diritto alla salute nel suo aspetto di pretesa all’erogazione di prestazioni «non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone»; dall’altro, le «esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana» (in questo senso, oltre alla citata sentenza, ex plurimis: sentenze n. 455 del 1990; n. 267 del 1998; n. 509 del 2000; n. 252 del 2001; n. 432 del 2005)”.

Sentenza n. 200/2012 Corte costituzionale

Contesto: si riferisce al giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 3 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148.
La sentenza sembra sancire l’esistenza di un principio generale della liberalizzazione e innalzarlo a fine costituzionale, in particolare si legga il Considerato in diritto n. 7.4: “una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale.”

Sentenza n. 00326/2013 del T.A.R. Piemonte (fonte: Fondazione Promozione Sociale) e Sentenza n. 01740/2015 del Consiglio di Stato

Contesto: alcune associazioni che si propongono di promuovere e tutelare i diritti delle c.d. categorie deboli (in particolare disabili e anziani non autosufficienti) richiedono l’annullamento della deliberazione n. 11/A/2012 “Programmazione delle attività e dei servizi del Consorzio per l’anno 2012: definizione e linee di indirizzo residue” dell’Assemblea del Consorzio Intercomunale Socio-Assistenziale “Valle di Susa” perché recante misure di contenimento della spesa incidenti sulle categorie deboli sia in termini economici (compartecipazione degli utenti ai costi dei servizi) sia in termini di riduzione dei servizi socio-assistenziali (previsione di liste d’attesa e divieto di nuovi inserimenti nelle varie strutture). La riduzione della spesa si inserisce nel quadro dei “tagli” adottati dalle regioni al fine di mantenere il bilancio in equilibrio; si tratta dunque di bilanciare le ragioni dell’economia con la garanzia dei diritti sociali di assistenza (art. 38 Cost.) in un quadro che preservi l’eguaglianza sostanziale fra tutti i cittadini.

I principi che risultano primariamente tutelati, nonostante si sostenga che “i tagli degli enti locali non giustificano pregiudizi sulla tutela della salute”, sono “il coordinamento generale di tutta la finanza pubblica; l’equilibrio dei bilanci in relazione alle risorse limitate disponibili; quindi il contemperamento delle prestazioni sanitarie con i vincoli del bilancio, assicurando il diritto alla salute e i L.E.A., quali livelli uniformi garantiti a tutti i cittadini, l’appropriatezza e la ragionevolezza dei fondi assegnati e delle prestazioni stesse, nell’equa distribuzione dei sacrifici e dei carichi finanziari; la imprescindibilità e la vincolatività dei piani di rientro del comparto sanitario imposti dal Parlamento e dal Governo; il conseguente obbligo delle Regioni di adottare i necessari provvedimenti organizzativi e finanziari sì di natura discrezionale ma autoritativi, volti al rigoroso contenimento e alla razionalizzazione dei costi e quindi alla costante riduzione del debito e del disavanzo.” (6.2 del Fatto e diritto della sentenza del Consiglio di Stato).

Sull’argomento, si segnala:

Francesco Pallante, Il Consiglio di Stato: dall’inderogabilità dei diritti (sociali) all’inderogabilità dell’equilibrio di bilancio?, in Democrazia e diritto, n. 1/2014, pp. 173-187

Sentenza n. 604/2015 del Consiglio di Stato (Fonte: giustizia.amministrativa.it)

Contesto: si riferisce alla controversia relativa alla sentenza del T.A.R. PIEMONTE n. 00199/2014, concernente il sistema delle liste di attesa per l’assistenza residenziale e semiresidenziale alle persone anziane non autosufficienti. Di particolare interesse risulta il punto 16.5. del Fatto e diritto: “Nella impostazione della Corte il vincolo di bilancio e il rispetto dei diritti fondamentali si commisurano l’uno con l’altro nel senso che il vincolo di bilancio deve includere il rispetto dei diritti e i diritti devono a loro volta commisurarsi ad un nucleo essenziale, che sia di fatto compatibile con una prospettiva di effettiva sostenibilità e di lunga durata. […] Questa dialettica tra i valori più alti del nostro sistema costituzionale, tutti inderogabili e al tempo stesso tutti necessariamente attenti alle condizioni della loro effettiva implementazione e sostenibilità, si manifesta nel settore sanitario e socio-assistenziale con maggiore evidenza e con alta valenza simbolica e sostanziale”. Si richiama infine il punto 16.10.2 del Fatto e diritto: “La giurisprudenza della Corte costituzionale ha infatti più volte chiarito che la implementazione di prestazioni ulteriori o superiori rispetto al livello essenziale, quale risulta stabilito in ambito nazionale, non è consentita se non è contemplata dal Piano di rientro […]. Da tale giurisprudenza si ricava che una delimitazione o anche una riduzione delle prestazioni che sono al di sopra dei livelli essenziali non costituisce una loro violazione, ma al contrario, per una Regione sottoposta al Piano di rientro, costituisce un obbligo o un atto necessario, che può essere evitato solo previa dimostrazione della sua inutilità. Pertanto, gli atti di programmazione sanitaria e socio-assistenziale in attuazione del Piano di rientro comportano scelte di recupero o redistribuzione di risorse anche con riferimento ai LEA se questi sono erogati al di sopra degli standard nazionali.”

Sull’argomento, si segnala:

Francesco Pallante, Diritti costituzionali ed equilibrio di bilancio: il Consiglio di Stato torna agli anni Cinquanta, in Democrazia e diritto, n. 1/2015, pp. 88-96

Sentenza 10/2015; 70/2015 e 178/2015 della Corte costituzionale

Contesto: Le tre sentenze in questione sono legate dalla comune attenzione alle novità introdotte con la revisione dell’art. 81 Cost. ad opera della legge costituzionale n. 1/2012. Le tre pronunce della Corte hanno tuttavia messo in atto un diverso bilanciamento tra il principio del pareggio di bilancio e gli altri diritti costituzionalmente tutelati.

La sentenza n. 10 (relativa al giudizio di legittimità costituzionale di una norma che prevedeva una maggiorazione d’imposta gravante su determinati operatori dei settori energetico, petrolifero e del gas) è di particolare interesse perché determina una svolta nella giurisprudenza della Corte, la quale, per la prima volta, sancisce che una pronuncia di illegittimità costituzionale non abbia effetti retroattivi. La motivazione di tale innovazione deriva dal fatto che la retroattività determinerebbe una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai sensi del nuovo art. 81 Cost.: l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesso alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma in questione determinerebbe, infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale. La Corte ha dunque ritenuto che il bene da tutelare maggiormente fosse la salvaguardia dell’equilibrio di bilancio, trattandolo alla stregua di un principio supremo.

La sentenza n. 70 (relativa alla rivalutazione dei trattamenti pensionistici) si pone in contraddizione con la precedente pronuncia. La Corte dichiara infatti l’illegittimità costituzionale di una disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo che si limita a richiamare genericamente la “contingente situazione finanziaria”, senza che emerga con chiarezza la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi fortemente incisivi.

Nella sentenza n. 178 (relativa al congelamento dei trattamenti economici dei dipendenti pubblici e al blocco della contrattazione collettiva nel pubblico impiego) la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale sopravvenuta (la quale spiega i suoi effetti a seguito della pubblicazione della sentenza) del regime di sospensione della contrattazione collettiva, proprio sulla base del palesarsi della sua natura “strutturale” (derivante dalla reiterazione delle misure in questione di anno in anno). Il carattere sistematico di tale sospensione sconfina dunque, secondo la Corte, in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale (art. 39 Cost.) ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa (art. 81 Cost.).

Le tre sentenze evidenziano come la giurisprudenza della Corte sul punto sia oscillante e il problema del rapporto tra l’art. 81 Cost. e le altre norme e diritti costituzionali resti aperto.

I rapporti di lavoro

Il lavoro è oggi una realtà complessa e multiforme, non riducibile a un’unica dimensione come, in particolare, quella economica. La Costituzione tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” e impone ai pubblici poteri di adottare tutte le misure idonee a rendere effettivo per tutti il diritto al lavoro. Questo perché poter svolgere un lavoro, qualunque esso sia, permette a ciascuno di realizzarsi, di trovare il proprio “posto nel mondo”, e alla società di svilupparsi e di progredire sotto l’aspetto materiale e “spirituale”. In questo senso il lavoro è un diritto, un dovere e il fondamento della democrazia.

Costituzione

Approfondimenti

1. – La Costituzione italiana considera il lavoro un principio fondamentale e se ne occupa fin dai primi articoli:

  • art. 1, co. 1, Cost.: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»;
  • art. 4 Cost.: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».

Ma cosa vuol dire, in concreto, «Repubblica democratica fondata sul lavoro»? Vuol dire – in estrema sintesi – che in democrazia nessuno può vivere “sulle spalle” degli altri, che tutti devono darsi da fare per rendere migliore la collettività in cui vivono. Ecco perché l’art. 4 Cost. parla, nel contempo, di «diritto» e di «dovere» al lavoro: si ha il diritto di lavorare, perché attraverso il lavoro ci si procurano i mezzi per vivere; e si ha il dovere di lavorare, perché attraverso il lavoro si fa qualcosa di utile per la società, non si vive passivamente.
Molto significativa è l’espressione per la quale si deve svolgere un lavoro che «concorra al progresso materiale o spirituale della società» (l’art. 4, co. 2, Cost.): significa che, agli occhi della Costituzione, tutti i lavori sono egualmente importanti e hanno pari dignità, tanto quelli che migliorano la condizione materiale della società (per esempio, attraverso la produzione di un bene di consumo), quanto quelli che migliorano la condizione spirituale della società (per esempio, attraverso la produzione di un’opera artistica).

Nello sviluppare più in concreto il principio lavoristico, la Costituzione si preoccupa, in particolare, di dettare regole a tutela dei lavoratori dipendenti. Vengono in rilievo, in proposito, gli artt. 3540 Cost., il cui scopo è evitare che il datore di lavoro possa approfittare della propria posizione di forza e sfruttare il lavoro dei propri dipendenti.

I costituenti conoscevano le terribili condizioni in cui erano stati costretti a lavorare i dipendenti (e in particolare gli operai) nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, erano consapevoli dello sfruttamento del lavoro femminile e minorile, sapevano quanto la disperazione possa indurre le persone a calpestare la propria dignità pur di avere un lavoro con cui sfamare se stessi e la propria famiglia. Come sarebbe stato compatibile tutto ciò con l’affermazione dei diritti umani (art. 2 Cost.) e del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.)? Se non si voleva che quelle solenni proclamazioni si rivelassero mere parole al vento, occorreva impedire che si riproducessero situazioni di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ecco allora la previsione delle misure a tutela dei lavoratori dipendenti.

2. – La prima di tali misure è la contrattazione collettiva (art. 39 Cost.), vale a dire la regola per la quale le condizioni di lavoro (orario, pause, turni, ferie, retribuzione, ecc.) non sono contrattate tra datori di lavoro e lavoratori direttamente, ma attraverso le rispettive rappresentanze sindacali. Quando le parti raggiungono un accordo, siglano un contratto, che vale per tutti coloro che lavorano nel settore interessato (per esempio, il settore metalmeccanico); questo contratto si chiama – date le sue caratteristiche – «contratto collettivo nazionale di lavoro» (ccnl). Solitamente i ccnl non contengono tutta la disciplina del rapporto di lavoro, ma lasciano poi alla singola impresa e ai sindacati in essa presenti il compito di definire le regole più specifiche, in modo da poterle rendere più adeguate caso per caso. Quel che più conta, in ogni caso, è che in tal modo i lavoratori dipendenti (la parte debole del rapporto) non vanno mai a contrattare a tu-per-tu con i datori di lavoro (la parte forte del rapporto), ma lo fanno sempre proponendosi come controparte unitaria. In tal modo, la forza economica del datore di lavoro viene riequilibrata dalla forza numerica dei lavoratori.
Problema: ma, come può un ccnl valere per tutti i lavoratori di un determinato settore, inclusi coloro che non sono iscritti al sindacato? Iscrivendosi al sindacato, i lavoratori delegano i sindacalisti a contrattare per loro e dunque risultano vincolati dalle decisioni assunte dai sindacalisti; ma come può risultare vincolato chi non è iscritto al sindacato?
Teoricamente, art. 39 Cost. superava il problema attribuendo ai sindacati una funzione pubblica – capace, cioè, di impegnare anche i non iscritti – a condizione che essi si sottoponessero a una registrazione che ne sancisse la democraticità. Concretamente, però, i sindacati han sempre rifiutato di sottoporsi alla registrazione, per evitare una forma di controllo che, ai loro occhi, limiterebbe la libertà sindacale.

La soluzione è stata trovata attraverso l’art. 36 Cost. Tale articolo si occupa di tre aspetti fondamentali del rapporto di lavoro: la retribuzione, l’orario di lavoro e il riposo.

La disposizione-chiave è quella sulla retribuzione. l’art. 36, co. 1, Cost. dice che «il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Sembra chiaro, ma, in concreto, qual è la soglia di una retribuzione dignitosa? La Costituzione non fissa una cifra: sarebbe insensato, perché la dignitosità della retribuzione è una misura che dipende dal contesto sociale. Cose che un tempo sarebbero state considerate un lusso (per esempio, l’acqua corrente in casa) oggi fanno parte delle esigenze minime di una famiglia. Dunque come si fa a stabilire quando una retribuzione è o meno dignitosa?
In poche parole, si è fatto il seguente ragionamento. Poiché nel rapporto di lavoro il lavoratore è la parte debole, è difficile che un singolo lavoratore possa ottenere condizioni contrattuali migliori da quelle ottenute dai lavoratori riuniti in sindacato con un ccnl; dunque, anche in forza del principio di uguaglianza, il ccnl può essere preso a riferimento come limite verso il basso delle condizioni di lavoro applicabili ai lavoratori. I contratti individuali contenenti condizioni peggiori sono stati così ritenuti illegittimi dai giudici dei lavoro e trasformati, automaticamente, in contratti dal contenuto analogo a quello del ccnl. In tal modo, il ccnl è divenuto applicabile anche ai lavoratori non iscritti al sindacato (sia pure non di diritto, per via dell’art. 39 Cost., ma di fatto, per via l’art. 36 Cost.).
Sempre l’art. 36 Cost. prevede al comma 2 che la legge stabilisca la durata massima della giornata lavorativa. In questo caso la Costituzione vuole evitare che i lavoratori possano essere sfruttati fino allo sfinimento fisico. Tendenzialmente, la legge ha poi stabilito che la giornata lavorativa non può superare le 8 ore, per un totale di 40 ore settimanali.
L’art. 36 Cost. ha, infine, un comma 3, ai sensi del quale «il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi» (sono diritti indisponibili: al massimo il mancato godimento del riposo e delle ferie può essere compensato in denaro). La particolare disciplina dettata dal comma 3 è motivata non solo dalla circostanza che il riposo e le ferie servono al lavoratore per recuperare la forma psicofisica, ma anche perché la vita di una persona non può essere solo rivolta al lavoro. Il lavoratore deve poter avere una vita sociale e familiare, altrimenti la sua esistenza non sarebbe dignitosa (vi sono eccezioni: si pensi a lavori come il medico o l’autista del treno che certamente non possono essere sospesi la domenica o durante l’estate; in tal caso la legge prevede che i lavoratori che lavorano nel giorno in cui gli altri lavoratori di solito riposano ricevano una compensazione economica e che, in ogni caso, sia previsto un sistema di turnazione).

L’art. 35 Cost. contiene una regola di carattere generalissimo, secondo la quale «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» (si ricollega a quanto detto a proposito della pari dignità di ogni lavoro presupposta nell’art. 4, co. 2, Cost.) e alcune regole più specifiche sulla formazione professionale dei lavoratori, sugli accordi internazionali a tutela dei diritti del lavoro e sulla libertà di emigrazione per motivi di lavoro (un problema che oggi si è ribaltato nel suo inverso: ma, non dimentichiamo che per decenni l’Italia è stato un Paese di emigranti).

L’art. 37 Cost. prevede una disciplina specifica per le lavoratrici donne e i lavoratori minorenni.
Lo sfruttamento del lavoro femminile e minorile è stata a lungo una terribile piaga nelle nostre società. Oggi ci turba l’idea di giocare a calcio con un pallone cucito dai bambini pachistani, ma nella “civile” Inghilterra vittoriana i bambini erano mandati nei punti più impervi delle miniere perché per loro erano sufficienti piccoli (ed economici) cunicoli anziché grandi (e costose) gallerie.
Il comma 1 dell’art. 37 Cost. dice che «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». E aggiunge: «Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione». Queste disposizioni sono alla base di una vera e propria rivoluzione nelle condizioni di lavoro delle donne. Tradizionalmente le donne erano non solo sottopagate rispetto agli uomini (perché, si diceva, nel medesimo orario producono di meno), ma erano anche sempre esposte al ricatto del licenziamento nel caso si fossero sposate o fossero rimaste incinte (spesso si impegnavano contrattualmente a rimanere nubili). Ora, sulla base della Costituzione, non solo le donne non possono più essere discriminate rispetto agli uomini quanto al trattamento retributivo, ma devono essere tutelate in modo speciale dalla legge, in particolare quando assumono la veste di moglie e di madre. Di qui deriva tutta la legislazione che vieta di licenziare le donne lavoratrici per causa di matrimonio e durante il periodo della gravidanza e del primo periodo di vita del bambino; che impone obbligatoriamente alle donne incinte di restare a casa per un periodo di tempo e che consente loro di estenderlo facoltativamente (senza rischio di perdere il posto); che consente alle madri di occuparsi dei figli in caso di loro malattia. Dato il radicamento e la persistenza dei comportamenti discriminatori, la legislazione più recente ha introdotto le c.d. azioni positive, vale a dire trattamenti che introducono differenze di trattamento a favore delle donne (per esempio le “quote rosa”). Un’altra misura di riequilibrio è stata l’estensione della disciplina sulla maternità anche ai padri, in modo che i figli non siano un “peso” che grava solo sulla componente femminile della famiglia.
I commi 2 e 3 dell’art. 37 Cost. si occupa, invece, del lavoro minorile. Dice la Costituzione: «La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione». Quanto all’età minima, la legge stabilisce che non si possa lavorare prima di aver concluso il periodo di istruzione obbligatoria, quindi prima del compimento dei 16 anni. Quanto invece alle tutele particolari previste per il lavoro minorile, si tratta soprattutto di divieti relativi allo svolgimento lavori pesanti o pericolosi e in orari notturni. Inoltre, i minori hanno diritto a 2 giorni di riposo settimanale e sono sottoposti a visite mediche annuali per verificarne lo stato di salute e l’idoneità al lavoro.

Sempre nell’ottica di offrire tutela ai soggetti più deboli operano le previsioni dell’art. 38, comma 3, Cost., ai sensi del quale «gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale». In proposito, la legislazione prevede il collocamento obbligatorio presso pubblica amministrazione e imprese private di tutta una serie di soggetti riconducibili a queste due categorie.

La Costituzione prevede, poi, due diritti fondamentali, senza i quali i lavoratori non potrebbero nemmeno pensare di far valere la propria voce di fronte ai datori di lavoro: il diritto di associazione sindacale e il diritto di sciopero.

La libertà sindacale è tutelata dall’art. 39 Cost., ai sensi del quale: «l’organizzazione sindacale è libera». La libertà sindacale è una specificazione della libertà di associazione tutelata dall’art. 18 Cost. (il sindacato è un’associazione di lavoratori).
I concreto, libertà sindacale vuol dire: (1) libertà di creare un sindacato; (2) libertà di aderire a un sindacato esistente; (3) libertà di non aderire a nessun sindacato. La libertà di aderire a un sindacato implica il divieto per il datore di lavoro di licenziare un lavoratore solo perché è iscritto al sindacato.
Come visto, il compito principale dei sindacati è quello di stipulare i ccnl. Tra i loro altri importanti compiti rientrano quello di operare all’interno delle strutture produttive attraverso organismi composti da delegati dei lavoratori per agire a loro tutela e di designare i loro rappresentanti in enti pubblici che operano in settori che interessano la condizione dei lavoratori (per esempio, nel settore previdenziale).
Il c.d. Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) tutela proprio la libertà sindacale, sia dei singoli lavoratori, sia delle associazioni sindacali. Tra i suoi profili di maggiore rilievo vi è la disciplina sui licenziamenti, che innova rispetto alla situazione precedente colpendo uno degli elementi che maggiormente limitavano la libertà del lavoratore: il diritto del datore di lavoro di licenziare a proprio arbitrio i dipendenti (c.d. licenziamento ad nutum). Fondamentalmente, la nuova disciplina ammette il licenziamento in due casi:

  • per giusta causa, quando il lavoratore abbia tenuto comportamenti così gravi da non consentire la prosecuzione, neanche temporanea, del rapporto di lavoro (per esempio, in caso riveli segreti industriali a imprese concorrenti o manometta gli impianti);
  • oppure per giustificato motivo, quando ragioni economiche obiettive (per esempio, la crisi di un settore produttivo) impongono la riduzione del personale, ovvero quando vi sia un notevole inadempimento dei doveri da parte del lavoratore (per esempio, il sistematico ritardo nel presentarsi sul posto di lavoro).

In ogni caso, il lavoratore licenziato può chiedere l’intervento del Tribunale-giudice del lavoro per controllare la sussistenza delle ragioni che giustificano il licenziamento. Anche la tutela giudiziale del posto di lavoro è stata una novità di grande rilievo, specie perché la legge prevedeva che, in caso di licenziamento illegittimo (cioè senza giusta causa o giustificato motivo), il lavoratore dovesse essere automaticamente reintegrato nel posto di lavoro.

Quanto al diritto di sciopero, esso è disciplinato dall’art. 40 Cost., per il quale: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».
Scioperare significa astenersi collettivamente dal lavoro allo scopo, solitamente, di ottenere miglioramenti delle condizioni di lavoro rispetto a quelle esistenti. Naturalmente, il datore di lavoro non corrisponderà la retribuzione per le giornate di sciopero: è come se lo sciopero sospendesse il rapporto di lavoro.
Il riconoscimento del diritto di sciopero costituisce una rivoluzione nell’ambito del diritto del lavoro (storicamente lo sciopero è sempre stato represso o, al massimo, per certi periodi, tollerato). Il fatto che lo sciopero sia un diritto non significa, però, che esso possa essere indetto senza limiti. Come ogni diritto di libertà, il suo esercizio non deve trasformarsi nella lesione dei diritti di libertà altrui. La legge stabilisce, in particolare, dei vincoli allo sciopero nei settori dei servizi pubblici essenziali (sanità, trasporti, raccolta rifiuti, istruzione, …), per evitare eccessivi disagi agli utenti. In senso estensivo è stato, invece, ritenuto ammissibile anche lo sciopero per motivi non economici, ma politici (per esempio, per opporsi a progetti di riforma della disciplina sul rapporto di lavoro o sulle pensioni).
Importante è sottolineare che il diritto di sciopero è riconosciuto solo ai lavoratori, non anche ai datori di lavoro, che non possono procedere alla c.d. serrata (cioè alla chiusura dei luoghi di lavoro). Come più volte detto, secondo la Costituzione i datori di lavoro sono la parte forte del rapporto di lavoro, sicché non avrebbe senso riconoscere anche a loro un’“arma” analoga a quella dello sciopero.

Infine, va ricordato che la Costituzione si occupa non solo delle persone che lavorano, ma anche di quelle che non lavorano perché non trovano lavoro (disoccupazione involontaria), perché non possono lavorare (a causa di infortunio, malattia, invalidità) o perché hanno finito di lavorare (vecchiaia).
L’art. 38, co. 2, Cost. prevede che lo Stato assicuri a tutti costoro «mezzi adeguati alle loro esigenze». La normativa di attuazione è molto complessa, ma è bene aver perlomeno chiara la differenza tra assistenza e previdenza:

  • l’assistenza riguarda gli indigenti (lavoratori o meno) e gli inabili al lavoro. Dunque, non riguarda tutti automaticamente, ma richiede l’accertamento di precise condizioni di svantaggio o di bisogno: per esempio, i lavoratori con familiari a carico, i disabili fisici e mentali, ecc.;
  • la previdenza riguarda invece solo i lavoratori (subordinati e non subordinati), che vivono situazioni che incidono sfavorevolmente sulla loro capacità di lavorare: dunque, coloro che si trovano in situazioni di infortunio e malattie professionali, di invalidità, di vecchiaia e di disoccupazione involontaria (esclusi coloro che sono alla ricerca di prima occupazione).

Uno dei limiti della legislazione italiana in materia è che il profilo previdenziale è ben più strutturato di quello assistenziale: sicché chi si trova all’interno mondo del lavoro gode di una condizione privilegiata rispetto a chi ancora non vi è entrato.

3. – Volgendo lo sguardo all’oggi, occorre registrare il progressivo allontanamento dall’impostazione costituzionale ora descritta, in particolare per via della crisi dell’idea che i rapporti di lavoro soffrano, per loro natura, di uno squilibrio a favore del datore di lavoro che necessita di essere corretto. L’idea oggi dominante è, al contrario, che sia opportuno lasciare che le relazioni socio-economiche si sviluppino in piena libertà e che gli squilibri che ne derivano in realtà consentano agli operatori economici di dispiegare a fondo tutte le potenzialità di cui sono capaci.
I fenomeni che meritano, in quest’ottica, di essere segnalati sono soprattutto: (a) l’incremento della c.d. flessibilità del rapporto di lavoro, sia in entrata (tipologia di contratti), sia in uscita (modalità di licenziamento); (b) il contenimento della presenza del sindacato sui luoghi di lavoro; (c) il superamento della contrattazione collettiva nazionale.

Iniziando dal fenomeno della c.d. “flessibilità” in entrata, va segnalata l’introduzione di una serie di strumenti contrattuali che hanno resa molto più debole e precaria di un tempo la posizione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro (contratti a tempo determinato, a progetto, di lavoro in affitto, co.co.co., soci lavoratori, ecc.). Il ricorso alle varie tipologie di nuovi contratti – ne sono state contate oltre trenta – è cresciuto al punto che ormai solo per la metà dei nuovi assunti si fa ricorso a quella che, un tempo, era la forma ordinaria di definizione dei rapporti di lavoro (il contratto a tempo indeterminato). Una riforma recente si è proposta di riportare un po’ di ordine in una situazione troppo confusa, agevolando il ricorso ai contratti a tempo determinato rispetto alle altre tipologie di contratti atipici. In tal modo, però, l’auspicata semplificazione del mercato del lavoro è ulteriormente andata a detrimento delle assunzioni a tempo indeterminato, da cui derivano maggiori oneri e vincoli (soprattutto in tema di licenziamento).
Ciò rimanda all’altro profilo della flessibilità, quella in uscita. Rispetto alle tutele previste in passato, la legislazione più recente ha indebolito la tutela dei lavoratori, prevedendo – salvo che i casi richiamati a giustificazione del licenziamento risultino insussistenti e salvi i casi di licenziamenti discriminatori (per esempio, per motivi politici, religiosi, razziali, …) – non più la reintegrazione, ma un mero risarcimento economico. Come già accennato, inoltre, l’esponenziale aumento dei contratti atipici ha reso per moltissimi lavoratori del tutto anacronistica la disciplina sui licenziamenti. Da ultimo, il drastico ridimensionamento dei vincoli ai contratti a tempo determinato renderà sostanzialmente inutile tale disciplina, dal momento che la grande maggioranza dei nuovi lavoratori sarà assunta a termine (sicché per il datore di lavoro sarà sufficiente attendere la scadenza del contratto e poi non procedere al rinnovo).

Quanto alla presenza del sindacato sul luogo di lavoro, occorre ricordare l’aspro scontro che, negli ultimi anni, è derivato dal tentativo di alcuni datori di lavoro di limitare la rappresentanza aziendale ai sindacati sottoscrittori degli accordi collettivi. La Corte costituzionale è, però, intervenuta sancendo che anche le associazioni sindacali non firmatarie, ma comunque coinvolte nella negoziazione, hanno diritto di far parte della rappresentanza sindacale aziendale. È chiaro infatti che, diversamente, gli spazi di dissenso si ridurrebbero progressivamente fino al loro sostanziale annullamento.

Infine, a essere messa fortemente in discussione è oggi anche la contrattazione collettiva nazionale, che sta perdendo di centralità a favore dei contratti aziendali, di stabilimento e, addirittura, individuali. Una legge recente consente alla contrattazione c.d. “di prossimità” (cioè non nazionale) di porre norme in deroga non solo ai contratti collettivi, ma addirittura alle leggi, tra cui lo Statuto dei lavoratori. Con il che, l’idea per la quale il ccnl era strumento indispensabile per consentire ai lavoratori di far fronte alla posizione di vantaggio di cui altrimenti gode il datore di lavoro, sembra destinata a venir meno.

Considerate tutte queste recenti evoluzioni, non è un caso se, sempre in questi anni, da più parti si sono levate voci per una riscrittura degli articoli della Costituzione economica, sino al punto di proporre la modifica dello stesso art. 1 Cost., scrivendo che la Repubblica è fondata non più «sul lavoro» ma «sulla libertà». È chiaro, però, che questa sarebbe un’ipotesi incompatibile con la Costituzione vigente, che annovera tra i suoi principi ispiratori non solo la libertà, ma anche l’uguaglianza sostanziale e la giustizia sociale. Sancire la prevalenza della libertà sugli altri principi stravolgerebbe a tal punto la Costituzione vigente da rendere eufemistico parlare di “riforma”: significherebbe – di fatto – dar vita a una Costituzione nuova, che nulla più avrebbe da spartire con quella attuale.

Scheda Giuridica

Bibliografia tematica

Manlio Mazziotti, Lavoro (diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, vol. XXIII, 1973, pp. 338 ss.

Voce enciclopedica di riferimento sul lavoro e le sue declinazioni nel diritto costituzionale.

Adriana Apostoli, Art. 4, in S.  Bartole – R.  Bin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, Cedam, 2008, pp. 38-49

Commento all’art. 4 Cost. e, più in generale, alle norme costituzionali relative al lavoro.

Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Roma-Bari, Laterza, 2009

La “flessibilità” del lavoro è richiesta in misura sempre crescente: quali sono i motivi, i costi umani e le alternative a questa realtà?

Luciano Patruno, Il caso Rüffert: la Corte di giustizia CE fa un altro passo avanti nella ‘via giudiziaria’ al dumping sociale, in Costituzionalismo.it, n. 2/2008 

L’analisi della sentenza Rüffert della Corte di giustizia dell’Ue offre lo spunto per delineare il mutamento dei diritti dei lavoratori in ambito europeo, in particolare in riferimento al diritto di sciopero, alla contrattazione collettiva e alla giusta retribuzione, rispetto al diritto delle imprese di trarre vantaggio, nell’esercizio della libertà di prestare servizi o di scelta dello Stato d’elezione ove stabilire il centro dei propri affari, dai differenziali di costo del lavoro presenti nel “mercato interno”.

Giorgio Fontana, Libertà sindacale in Italia e in Europa. Dai principi ai conflitti, in Quaderni costituzionali, 2010

Il contributo offre un quadro dettagliato del significato e dei mutamenti del concetto di libertà sindacale nel testo costituzionale e nel quadro europeo, anche alla luce di alcune importanti sentenze della Corte di giustizia dell’Ue.

Maurizio Rossi, Le nuove forme di accordo tra sindacati e impresa: una cronaca a partire dal caso FIAT, in Rivista AIC, n. 3/2011    

A seguito del caso Fiat si è parlato di uno shock subìto dal diritto del lavoro, causato dal nuovo modello di contrattazione sindacale. L’autore analizza l’evoluzione delle modalità di contrattazione e il contenuto degli accordi conclusi per comprendere il punto in cui sono giunte le relazioni industriali.

Alessandra Algostino, Diritti flessibili nell’era dei feudi aziendali. Considerazioni intorno all’accordo su democrazia e rappresentanza del 28 giugno 2011 e all’art. 8 della manovra finanziaria-bis (l. 148 del 2011), in Costituzionalismo.it, n. 3/2011 

Attraverso l’analisi dell’accordo del giugno 2011 in tema di democrazia e rappresentanza, siglato tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, l’autrice esamina la storia della destrutturazione dei rapporti di lavoro e il mutamento della relazione capitale-lavoro rispetto alle previsioni della Costituzione.

Stefano Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in Costituzionalismo.it, n. 1/ 2015

L’articolo si occupa di approfondire criticamente la nuova disciplina del contratto di lavoro a tutele crescenti, mettendone in evidenza i possibili profili di illegittimità costituzionale.

Chiara Tripodina, Reddito di cittadinanza come “risarcimento per mancato procurato lavoro”. Il dovere della Repubblica di garantire il diritto al lavoro o assicurare altrimenti il diritto all’esistenza, in Costituzionalismo.it, n. 1/2015

Partendo dal diritto ad avere garantita una vita libera e dignitosa, anche quando si versi in condizione di povertà e disoccupazione, l’autrice analizza il dovere della Repubblica di garantire a tutti l’esistenza ed individua nel reddito di cittadinanza uno strumento costituzionalmente necessario per la realizzazione di una democrazia realmente emancipante.

Francesca Angelini, Il governo, il lavoro e la Costituzione nel c.d. “Jobs Act”, in Costituzionalismo.it, n. 1/2015

La riforma del Jobs Act viene analizzata nel quadro delle riforme strutturali del mercato del lavoro, mettendo in evidenza le ripetute forzature delle regole costituzionali e l’emarginazione del ruolo del Parlamento.

Legislazione

Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento)

Contesto: lo Statuto dei lavoratori, nato a seguito delle lotte operaie di fine anni 1960, costituisce, dopo la Costituzione, la fonte più importante del diritto del lavoro e sindacale nell’ordinamento italiano. Esso risponde a due esigenze fondamentali: tutelare la libertà e dignità dei lavoratori sul luogo di lavoro contro le possibili prevaricazioni da parte del potere imprenditoriale e rafforzare l’organizzazione e la libertà sindacale in azienda.

Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34 (Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese) convertito con modificazioni dalla legge 16 maggio 2014, n. 78

Contesto: nell’ambito della crisi occupazionale e seguendo il paradigma secondo il quale l’aumento della flessibilità comporterebbe un conseguente aumento dell’occupazione, il legislatore ha messo in capo tale disciplina che rischia nei fatti di rovesciare il principio secondo il quale il contratto di lavoro a tempo indeterminato costituirebbe la forma comune del rapporto di lavoro. La critica delinea infatti una possibile incompatibilità del decreto con la direttiva 1999/70/CE del Consiglio, la quale, già nel preambolo, afferma che “i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori”.

Legge 10 dicembre 2014 n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e relativi decreti attuativi: decreto legislativo 22/2015 relativo all’introduzione di nuovi ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria; D.Lgs. 23/2015, sul contratto a tutele crescenti; D.Lgs. 80/2015, sulla conciliazione tra tempi di vita e di lavoro; D.Lgs. 81/2015 relativo al riordino dei contratti di lavoro e alla disciplina delle mansioni; D.Lgs. 151/2015 sulle semplificazioni in materia di lavoro e pari opportunità; D.Lgs. 150/2015 in materia di politiche attive; D.Lgs. 149/2015 relativo all’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale; D.Lgs. 148/2015 sulla riorganizzazione della disciplina degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro.

Contesto: tali normative, nel loro insieme, costituiscono la riforma del mercato del lavoro conosciuta come “Jobs Act”. La critica principale che viene mossa a questa disciplina è quella di disconoscere la concezione del lavoro (strumento di realizzazione della persona e della sua dignità) sulla quale si fonda la Costituzione in base all’art. 1. In riferimento al Jobs Act è stato promosso un referendum abrogativo nel marzo 2016.

Giurisprudenza

Sentenza della Corte di giustizia nella causa C-438/05

Contesto: il richiamo allo scenario europeo risulta particolarmente interessante a seguito di una serie di sentenze della Corte di giustizia che appaiono tutte ispirate alla medesima logica (sentenze Viking e Laval del 2007 e Rüffert del 2008) di bilanciamento tra le libertà economiche e i diritti sindacali. La sentenza Viking riguarda in particolare il contrasto tra la libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi riconosciuta dai trattati alle imprese e il diritto di sciopero dei lavoratori e, riconoscendo in quest’ultimo un fattore restrittivo delle prime, contribuisce a fornire l’immagine di un’Europa che custodisce prioritariamente le libertà degli operatori del mercato e non i diritti fondamentali degli individui.

 

Sentenza n. 85/2013 della Corte Costituzionale

Contesto: si riferisce alla vicenda dello stabilimento dell’Ilva di Taranto, autorizzato dal decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (convertito in legge 24 dicembre 2012, n. 231) a proseguire la propria attività produttiva, in funzione della salvaguardia dell’occupazione e della produzione, nonostante questa avesse causato una situazione di emergenza ambientale e sanitaria tale da indurre la Procura di Taranto a disporre il sequestro di alcuni impianti dell’azienda. Della sentenza risulta particolarmente interessante la questione del bilanciamento tra i diritti fondamentali alla salute (art. 32 Cost.), all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali. La Corte Costituzionale, respingendo le questioni di costituzionalità poste dal giudice nei confronti del decreto-legge, conclude affermando il carattere non preminente del diritto alla salute rispetto agli altri diritti fondamentali e ragionevole il bilanciamento effettuato dal legislatore (in questo caso, in particolare, tra salute e lavoro).

 

Sentenza n. 231/2013 della Corte Costituzionale

Contesto: il richiamo a tale sentenza è utile per fornire uno spunto di riflessione sulla tematica della rappresentanza sindacale sul luogo di lavoro. Dati i tentativi, da parte di alcuni datori di lavoro (in particolare, nella sentenza, ci si riferisce alla Fiat), di limitare la rappresentanza aziendale ai sindacati sottoscrittori degli accordi collettivi escludendone altri (la Fiom), la Corte ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, primo comma, lettera b), della legge n. 300 del 1970, nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”. Le motivazioni sono riconducibili al fatto che il richiamato art. 19 possa essere trasformato in un “meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo” e dunque il criterio della sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda si trovi inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli artt. 2 (diritti inviolabili dell’uomo, come singolo e nelle formazioni sociali), 3 (principio di uguaglianza) e 39 (libertà di organizzazione sindacale) della Costituzione.

Visioni

  • “Tempi moderni” di Charles Chaplin, 1936 - Scheda del film
  • “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, 1960 - Scheda del film
  • “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica, 1948 - Scheda del film
  • Letture

  • “Tempi difficili” di Charles Dickens, 1854 - Scheda della lettura
  • “Rosso Malpelo” di Giovanni Verga, 1880 - Scheda della lettura
  • “Germinale” di Émile Zola, 1885 - Scheda della lettura
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